Workaholism: la nuova dipendenza della nostra epoca

I was early taught to work as well as play. My life has been one long, happy holiday. Full of work and full of play. I dropped the worry on the way. And God was good to me every day. (John D. Rockfeller)

Cos’e workaholism

Il termine workaholism fu coniato per la prima volta nel 1971 dallo psicologo William Oates, e indica un forte attaccamento dell’individuo verso il proprio lavoro, qui in Italia possiamo tradurre il termine con lavoratore compulsivo.

Chi affetto da sindrome da workaholism lavora ben oltre l’orario d’ufficio e durante i week end; nel poco tempo libero che si concede, fatica a rilassarsi, come se non riuscisse in alcun modo a “staccare la spina”: parte della sua mente è ancora in ufficio.

Si tratta a tutti gli effetti di un tipo di dipendenza, seppur atipico: l’oggetto è il lavoro, attività che nobilita l’uomo, fornendogli un sostentamento economico ma anche psicologico (chi in fondo non desidera sentirsi utile?), che forma parte dell’identità di un individuo.

Lavorare troppo non è un’attività deviante da quelli che sono i canoni della società, come lo possono essere l’abuso di alcol e droghe o il gioco d’azzardo. Al contrario, spesso un lavoratore assiduo gode di un buono status, specialmente presso l’azienda nella quale lavora.

Ad oggi, il workaholism (o anche work addiction) è ancora oggetto di studio da parte della comunità scientifica: è da poco entrato nel novero delle new addictions, delle nuove dipendenze, come lo è, ad esempio, l’abuso dello smartphone tra i più giovani.

Sindrome da workaholism: genesi e cause

Una recente ricerca condotta dall’Università di Bologna in collaborazione con quella di Trento, trae alcune conclusioni sulla base di due studi effettuati su differenti campioni di lavoratori.

È difficile stabilire in che misura fattori interni ed esterni alla persona giochino più o meno un ruolo fondamentale nel manifestarsi del workaholism: per la maggior parte si è portati a pensare ad una certa propensione psichica della persona:

  • Essere individui perfezionisti e competitivi per natura, spesso indici di una scarsa autostima
  • L’educazione ricevuta in tenera età gioca un ruolo cruciale: molti sono figli di genitori con tali inclinazioni
  • desiderio di compensare con il lavoro gli scarsi risultati riscontrati in campo affettivo e familiare.

Ultimamente però, ci si è concentrati anche sul ruolo dell’impresa nella quale la persona è inserita.

Vi sono infatti ottime ragioni per essere un work addict: aumento di stipendio e di reputazione, promozioni, etc.

In alcuni casi estremi addirittura è l’azienda stessa che si trasforma nel principale imputato: in Giappone il fenomeno del workaholism è molto più conosciuto che da noi, e si tinge di sfumature drammatiche: viene chiamato karoshi e significa “morte per eccesso di lavoro”.

La sua diffusione in Giappone risale a prima del 2000, durante periodi di forti licenziamenti su tutto il territorio: chi rimaneva era sottoposto ad una richiesta di lavoro eccessiva, impossibile da gestire e che, in linea con quelle che sono la filosofia e l’etica lavorativa giapponesi, ha condotto a numerosi suicidi.

La sua diffusione è stata enorme, tanto da spingere il governo ad emanare una legislazione apposita: in caso di decesso la famiglia della vittima avrebbe ricevuto un indennizzo in denaro, versato per la maggior parte dall’azienda e per una minima parte dal governo stesso.

Vi sono poi altri fattori esterni, propri della nostra epoca, che certamente aiutano la diffusione di questa condizione:

  • L’avanzamento tecnologico, in special modo per alcune tipologie di lavoro, oggi rende possibile lavorare da qualsiasi luogo (a casa, durante un viaggio in treno, in vacanza).
  • Oggi il lavoro non è più quello di un tempo: alle persone viene chiesto di più in termini di decision making, flessibilità, apprendimento continuo. Qualità che prima erano per lo più legate all’ambito manageriale, oggi diventano skills richieste a tutti. E del resto, ai dirigenti stessi viene spesso data molta più autonomia all’interno dell’impresa. Abbiamo ora molte più responsabilità sulle nostre spalle e spesso la sensazione è quella di dover sempre fare di più.

Workaholism: sintomi e identikit del workaholic

Il primo mito da sfatare è che, se sei un lavoratore compulsivo, è perché ami il tuo lavoro.

Non è un sentimento sano come la passione a guidare queste persone, si osserva piuttosto un certo risentimento nei confronti del loro lavoro.

Alcuni studiosi hanno così suggerito una netta distinzione tra due tipologie di hard worker, a cui i ricercatori dell’Università di Bologna si attengono:

  • i work enthusiast, che lavorano tanto e sodo perché gli piace ciò che fanno
  • i workaholics propriamente detti, che invece non presentano stima e passione per il loro lavoro ma piuttosto, in assenza di stringenti motivi finanziari, sembrano essere senza alcuna ragione obbligati a lavorare eccessivamente.

Vi sono poi interessanti studi di genere sul tema, che hanno ribaltato la credenza che gli uomini siano più propensi a soffrire di questa dipendenza, in quanto maggiormente dediti al lavoro, laddove le donne siano più concentrate nella cura della famiglia e dei figli.

Questo schema oggi non sussiste più: le donne infatti sperimentano una tensione unica nel cercare un equilibrio tra vita lavorativa e privata, tensione che gli uomini non sperimentano, in quanto ancora ancorati ad un modello che li vede protagonisti principalmente nella vita lavorativa.

Se è vero dunque che uomini e donne presentano in egual misura la possibilità di diventare workaholics, è anche vero che le donne sono maggiormente propense a sperimentarne gli effetti negativi sul proprio status psico-fisico.

Sono state effettuate robuste analisi su quelle che posso essere le conseguenze sulla salute dei lavoratori che sperimentano il workaholism:

  • aumento della pressione sanguigna e alterazione della frequenza cardiaca
  • stanchezza fisica e mentale
  • forte stress
  • insonnia
  • ansia e depressione
  • burn out (in fase molto avanzata)

Tutte queste sintomatologie possono essere spiegate nella maniera più semplice: quando una persona ha lavorato troppo, è perfettamente normale che si senta stanca, tutto ciò di cui ha bisogno è di un ciclo di riposo. Ma se non vi è discontinuità tra la fase di riposo e quella lavorativa, ecco che possono insorgere le complicanze di cui sopra: il nostro serbatoio di risorse non è illimitato e continuare a lavorare senza sosta per lunghi periodi è come voler guidare una macchina senza benzina o usare un computer con la batteria scarica: semplicemente non funziona!

Workaholism: come guarire?

Per comprendere appieno il problema della dipendenza dal lavoro e capire come curarla, è necessario approfondire il concetto stesso di dipendenza. Ne abbiamo discusso con Alvaro Gafaro Barrera, esperto di executive coaching che ha a lungo lavorato con personalità dipendenti, partendo proprio dalla tossicodipendenza.

Alvaro ci ha spiegato come l’essere umano sia dipendente per natura: è uno dei mammiferi più deboli alla nascita ed è quindi naturale che sviluppi forme di dipendenza (dalla famiglia ad esempio) senza le quali non potrebbe sopravvivere. Crescendo maturiamo maggiore consapevolezza di noi stessi e della nostra identità individuale, iniziando un percorso di autonomia che può portarci, a volte, anche a rinnegare il nostro stato precedente (“contro dipendenza”).

Il giusto equilibrio tra queste due condizioni, è l’interdipendenza: ovvero maturare la consapevolezza che il nostro benessere passa attraverso l’interdipendenza con gli altri individui, tramite la capacità di interagire liberamente con il prossimo.

L’interdipendenza è il modo più sano di vivere la vita all’interno di un’azienda, ed è l’obiettivo che l’azienda stessa dovrebbe stabilire come prioritario.

Un work addict dal canto suo contrasta con la definizione stessa di interdipendenza: tende ad isolarsi dal resto del gruppo, è irritabile, perfezionista e pignolo: ha l’impressione di non poter contare sugli altri ma solo su sé stesso.

Allora è importante come primo passo che aziende e organizzazioni forniscano la giusta informazione, con un occhio di riguardo verso il settore manageriale che risulta essere quello più colpito (così come in generale tutto il settore delle libere professioni).

Un manager poi, anche se non è un work addict spesso promuove una cultura del workaholism all’interno del proprio settore.

They contribute to creating a “workaholism culture” where the workaholic tendencies of individuals may be considered functional (Christian Balducci – Unibo, Lorenzo Avanzi, Franco Fraccaroli -Unitn)

Qui, c’è una responsabilità anche delle Direzioni del Personale nel “denunciare” tali meccanismi e correggerli.

Nello studio citato in questo articolo, vengono proposte varie soluzioni al problema: si va dalla terapia cognitiva individuale e alla pratica di attività ricreative come lo sport durante le ore libere.

Work–family programs, for example, programs aiming at developing family-supportive leadership behavior, may also be of help (Hammer, Kossek, Yragui, Bodner, & Hanson, 2009)

Soluzioni come il training manageriale e il coaching, possono costituire un valido aiuto, inserendo la persona all’interno di un efficace percorso di guarigione.

I percorsi guidati di meditazione e yoga sul posto di lavoro, oggi sempre più considerati e utilizzati, hanno indubbi benefici per i destinatari, e testimoniano anche l’interesse dell’azienda per il benessere dei propri collaboratori.

Per questo molte imprese forniscono ai dipendenti spazi appositi adibiti al relax, alla meditazione (per chi la pratica) o alla preghiera (per chi è religioso): vengono chiamate meditation room o anche quiet room.

Possiamo intenderli come differenti universi all’interno dell’ecosistema ambientale: per uscire da una dipendenza è necessaria una forte dose di autoconsapevolezza, in questi luoghi è possibile ritrovare sé stessi rompendo, anche se solo per qualche minuto, la routine che scandisce la vita lavorativa di un work addict.

Recreational activities, like sports, are particularly beneficial in terms of well-being for workaholics. (Bakker et al., 2013)

Alessia Tanzi – Giacomo Ciampoli